mercoledì 6 dicembre 2017

Una normale tortura delle brigate nere

A subirla, un normale partigiano: Arturo Mattiazzi di Postioma (Treviso), cattolico praticante, caposquadra di un gruppo di patrioti del paese e dei dintorni aderenti a “Giustizia e Libertà”.
Per conoscerne i particolari, cediamo la parola al suo parroco, don Giovanni Capoia, che
- con la sua prosa che non si può certo definire “scarna” - rende bene l’idea di come agisse
la XX Brigata Nera Cavallin, il noto reparto di controguerriglia antipartigiana
che operava a Treviso e provincia.

Febbraio 1945. Arresto e torture di Arturo Mattiazzi  [Titolo originale]

«Una sera della seconda quindicina del febbraio 1945 alcuni militi della Brigata Nera di Treviso raggiunsero l’abitazione di Arturo Mattiazzi da Postioma, Comandante il Battaglione partigiano “Bruno Chiarello” accusandolo di essere partigiano e intimandogli di consegnare le armi che possedeva lui e i suoi compagni. Il Mattiazzi, appena ventunenne, vistosi scoperto perché un suo amico prigioniero delle stesse Brigate Nere sotto le percosse e le minacce di morte aveva rivelati il suo nome e la sua qualifica, disse di possedere quattro moschetti, due dei quali li consegnò la stessa sera riservandosi di versare gli altri due il giorno seguente essendo nascosti e sepolti in località piuttosto distante da casa. Il capo della spedizione accettò dopo lunga discussione e minacce la proposta del Mattiazzi e gli intimò di presentarsi il giorno dopo coi due moschetti sotto pena di fucilazione, ed in caso che si fosse dato latitante, la famiglia ne avrebbe subito gravissime rappresaglie. La mattina seguente Arturo Mattiazzi, come era solito fare prima di prendere decisioni pericolose e di una certa importanza, espone il caso e si consiglia con il parroco.


Brigate Nere di Treviso: arresto e torture del partigiano Arturo Mattiazzi - 1
Da ''Cronistorie di guerra ...1939-1945'', a c. di Erika Lorenzon, Istresco - S. Liberale,
DVD allegato, (relazione del parroco di Postioma don Giovanni Capoia, pp. 7-10).

Torture delle brigate nere di Treviso al partigiano Arturo Mattiazzi - 2
(Da ''Cronistorie di guerra ...1939-1945'', a c. di Erika Lorenzon, Istresco - S. Liberale,
DVD allegato, (relazione del parroco di Postioma don Giovanni Capoia, pp. 7-10).

Questi stava per consigliarlo a non presentarsi, quando il capo partigiano gli fece conoscere che qualora non si fosse presentato con le armi la famiglia avrebbe dovuto subire tragiche conseguenze. Il parroco cambiò consiglio e gli disse: “Allora se è così presentati però stai attento preparati a tutto, perché nonostante ti abbiano promesso di lasciarti subito in libertà, sono capaci di giocarti un brutto scherzo.”
Da queste ed altre parole pronunciate dal suo fido consigliere, con segni di evidente preoccupazione e con la parola tremante ed interrotta, da qualche lungo sospiro, Arturo era troppo intelligente per non capire il pericolo al quale stava esponendosi e dopo qualche istante di riflessione soggiunse: e se sotto le percosse più crudeli e bestiali, le minacce di morte ecc. mi costringessero a parlare commetto peccato se manifesto il nome dei miei colleghi partigiani?
Il parroco sente gravarsi le spalle dal peso di un consiglio che stava per dare al giovane che era nelle disposizioni di praticarlo alla lettera, e sfuggendo una parola diretta si accontent[a] di dire: “Io se fossi nei tuoi panni mi lascerei uccidere ma non parlerei. Vivi in grazia di Dio, prega il Signore che ti illumini e ti aiuti, sii forte ed io non mancherò di esserti vicino in ispirito e di giovarti come meglio potrò”. Mentre il padre e pastore di anime sentiva una nuova spina ficcarsi nel cuore e pensieroso con la testa fra le mani restava seduto nel suo studio, Arturo scompariva dietro la porta.
Depositati i fucili alla sede delle Brigate Nere Villa Cappelletto in Monigo [1], venne passato alla prigione in attesa dell’interrogatorio. In questa penosa attesa poteva aiutare, sorreggere e confortare i compagni di prigione, quando dall’interrogatorio ritornavano o più spesso erano riportati da altre braccia o in barella, svenuti, sanguinanti con le ossa rotte ecc., più da olio santo che da offrire fondate speranze di guarigione.
Ed ecco anche il nostro Arturo nella sala delle interrogazioni. “Dimmi, chiede il giudice, dove sono le armi che possedete? Quali sono i tuoi comandanti? Qual è il tuo nome di battaglia? Quali sono i tuoi recapiti? Quante azioni hai fatto e quanti fascisti hai ucciso?”.
Come le domande uscivano dalle labbra dell’interrogante così le risposte dell’interrogato erano sempre le stesse “non so nulla di quanto mi chiedete, nulla è vero di quanto mi accusate”.
Durante l’interrogatorio tre sicari delle nere brigate avevano la barbara consegna di bastonare con rabbia feroce la povera vittima, che essendo di fibra robusta e di carattere forte poteva resistere mezz’ora sotto i loro colpi temibili poi esausta di forze cadeva svenuta. Per questo i colpi non cessarono e quando Arturo stramazzato per terra quasi più morto che vivo si accorse che la scaricadi legnate sul suo corpo piagato non era ancora cessata, la carneficina si prolungò per altra mezz’ora, ed ecco il paziente ricadere destituito di sensi e questa volta si riebbe soltanto in prigione fra le braccia di compagni di sventura.  
Il giorno seguente visto che Arturo era deciso di non parlare si cambiò tattica. Prima con le migliori promesse, poi con le minacce, infine con nuove percosse si voleva costringerlo ad iscriversi “volontario” alle Brigate Nere; ma il giovane intrepido seppe te[n]er duro e la sua risposta fu sempre “piuttosto ammazzatemi, ma non sarà mai che io mi iscriva alle Nere Brigate”. Questa volta il martirio di legnate si prolungò per più di un’ora e mezza e benché la povera vittima più volte cadesse a terra svenuta, si avrebbe ancora prolungato se il piede del tavolino usato per bastonare non si fosse spezzato sulla schiena del forte partigiano. Indi per nulla lasciare di intentato e per meglio riuscire allo scopo lo si mette al muro e col fucile puntato gli si intima ancora: “o fatti Brigata nera o ti ammazziamo” ma la risposta del Mattiazzi è sempre la stessa e con le braccia allargate come un crocefisso trova ancora la forza per rispondere “Eccomi pronto, finitemi piuttosto, ma brigata nera non sarò mai”. Ricondotto in prigione ricadde svenuto. Poco tempo dopo arrivò la mamma mandata dal parroco. Arturo giaceva ancora in uno stato da far pietà, incapace di reggersi in piedi venne sollevato dai compagni di prigione, poté essere veduto dalla sua genitrice attraverso una finestra, ma lui non poté scorgerla, il martirio della mattinata gli aveva temporaneamente tolto la forza visiva. Con la voce debole e tremante disse soltanto “Mamma ti saluto, prega per me”. La mamma che tutto aveva intuito balbettò qualche parola d’incoraggiamento e di saluto, ma subito un milite di guardia la costrinse ad uscire dal cortile.
Quando il sole, stanco di regolare la sua luce per illuminare i delitti perpetrati in quella triste giornata, si nascondeva dietro le montagne un sacerdote raggiungeva la prigione, Arturo ed altri compagni si confessavano e la mattina seguente potevano ricevere il pane dei forti, viatico necessario a chi, con forza indomita, e senza rimpianti, si accinge a salire il duro calvario sotto il peso di una croce che ad ogni passo sembra opprimerlo e vuole restare fedele fino all’eroismo, alla vocazione affidatagli dalla Provvidenza.
Il prode Arturo subiva un terzo interrogatorio accompagnato da mezz’ora di percosse, al termine del quale ripassava in prigione dove restava, quasi indisturbato altri otto giorni, al termine dei quali lo si trasferiva in Federazione fascista a Treviso. Qui nuovi interrogatori con nuovi e più raffinati strumenti di tortura per strappare qualche parola compromettente o che potesse offrire il bandolo per dirigere ricerche atte a scovare cooperatori, armi e attività del movimento insurrezionale. Ma Arturo, socio e assiduo frequentatore delle istruzioni morali delle gare di cultura religiosa, che in larga copia venivano impartite in parrocchia, aveva imparato, fra l’altro, che ci sono dei casi nei quali il segreto si può e si deve non rivelarlo, a chi non ha il diritto di carpirlo, specie quando ne venissero gravi danni ai terzi, anche se si fosse minacciati di morte.
Così stretto il braccio con un anello di ferro elettrizzato, cadeva a terra come fulminato. Svegliatosi dopo mezz’ora si accorse di essere di nuovo in prigione e ringraziava Dio di avergli dato la forza di non parlare.
Dopo alcuni giorni lo rivediamo a Postioma in divisa militare. Per sfuggire la morte che più volte aveva visto così da vicino, o la deportazione in Germania aveva tollerato di venire incorporato alla 29° Compagnia Provinciale di Treviso [2]. In questa nuova posizione poteva fornire nuove e preziose informazioni ai compagni di parte e gli erano offerte maggiori mezzi e occasioni per contribuire alla riscossa nei giorni che preludevano alla liberazione della città e marca trevigiana».
(Da Cronistorie di guerra ... 1939-1945, a c. di Erika Lorenzon, pp. 1130-1132. Relazione scritta il 30 settembre 1945)

Note

[1] Riguardo alle sedi della XX Brigata Nera di Treviso, riportiamo quanto scrive Maistrello, 2006, p. 33: «Il Comando della XX Brigata Nera di Treviso aveva sede presso la Federazione provinciale a palazzo Zuccareda, in via Cornarotta. [Attuale Comando provinciale dei Carabinieri].
La truppa, inizialmente, si acquartierò nella caserma 'Cadorin' di Monigo per trasferirsi nel cuore della città presso il Collegio Pio X, quando l'edificio rimase danneggiato da un bombardamento. Lì furono dislocati l'ufficio del vicecomandante, le camerate dei militi e le prigioni destinate alla custodia dei patrioti catturati nei rastrellamenti. Alcune celle furono approntate al piano terra, a sinistra dell'ingresso, mentre altre, opportunamente rinforzate con sostegni in legno in previsione di eventuali bombardamenti, furono ricavate nel sotterraneo.
Un secondo insediamento squadrista si trovava presso la palestra Verdi - nell'area oggi occupata dal nuovo Tribunale - e aveva in dotazione numerosi locali dei quali uno, denominato "battistero", era riservato alle sevizie e alle torture dei partigiani prigionieri.
A Monigo le Brigate Nere mantennero una sede distaccata in una casa di campagna (correntemente definita 'caserma'), il cui fienile veniva usato per bastonare e malmenare i fermati».
Non è noto se questa casa di campagna fosse la “Villa Cappelletto” di cui parla il parroco di Postioma.
[2] Correttamente si trattava del 29° Comando Militare Provinciale di Treviso, cioè una frazione dell’Esercito Nazionale Repubblicano (l'esercito regolare della Repubblica Sociale Italiana). Il 29° CMP dipendeva dal 203° Comando Militare Regionale con sede a Padova e - all'epoca della cronistoria del parroco di Postioma - era comandato dal colonnello Urbano Rocco.
Per i numeri della forza a disposizione del 203° CMR, cfr. Adolfo Scalpelli [1963?], La formazione delle forze armate di Salò attraverso i documenti dello Stato Maggiore della R. S. I., “Situazione comandi reparti e servizi nel territorio del 203° Com. Milit. Region., 1 Agosto 1944-XXII”, pp. 48-50. [Pdf online, dal sito dell'INSMLI. Consultazione: 5 dicembre 2017].

Monumento ai ferrovieri caduti nella Resistenza - (Fortunato Gaccetta, 1976) - DLF Treviso, via Benzi



Particolare del monumento ai ferrovieri caduti nella Resistenza,
opera dello scultore Fortunato Gaccetta, 
eretto nel 1976 presso la 
sede del Dopolavoro Ferroviario in via Giuseppe Benzi a Treviso.



Un monumento semplice ma di grande bellezza eretto in memoria dei partigiani ferrovieri caduti nella Resistenza contro il nazifascismo si trova nell’area verde prospiciente la sede del Dopolavoro Ferroviario di Treviso, in via Benzi (a poca distanza dal Sile).
È composto da due pezzi di rotaia slanciati verso l’alto che, nella parte sommitale, con una grossa catena, sorreggono una terza rotaia contorta.
Alla base del monumento, sulla parte frontale, in una lastra d’acciaio sono incisi dedica, nomi dei committenti e data di costruzione; in basso, un piccolo rettangolo di ferro ricorda l’autore.

 Il monumento ai ferrovieri partigiani caduti per la
libertà. Si trova a Treviso presso la sede del
Dopolavoro Ferroviario, in via Giuseppe Benzi.
Scultore Fortunato Gaccetta, 1976.
  Particolare di una rotaia con la marcatura in cui si intravede la
data di fabbricazione (1916) e la scritta ''...inois...USA...''.
Monumento ai ferrovieri caduti nella Resistenza,
opera di Fortunato Gaccetta, Treviso, 1976.





















Dedica: «AI FERROVIERI CADUTI PER LA
LIBERTÀ NELLA LOTTA PER LA  RESISTENZA CONTRO IL NAZIFASCISMO».
Committenti: SFI (Sindacato Ferrovieri Italiani), SAUFI (Sindacato Autonomo Italiano Ferrovieri Italiani, SIUF (Sindacato Italiano Unitario Ferrovieri), DLF (Dopolavoro Ferroviario) Treviso.
Data di costruzione : Giugno 1976.
Scultore: Fortunato Gaccetta [Polìa, Vibo Valentia, 1920 - Treviso, 2006]


Monumento ai ferrovieri caduti nella Resistenza, opera di Fortunato Gaccetta, 
inaugurato domenica 13 giugno 1976 presso il 
Dopolavoro Ferroviario di Treviso (via Giuseppe Benzi)

alla presenza del sindaco di Treviso Enrico Azzi e del presidente del DLF Corrado Bottone.

Trascrizione
LA LOTTA DI RESISTENZA
Ai  ferrovieri  caduti
Inaugurato un monumento al DLF di via Benzi

«Il contributo ed i sacrifici di sangue dei ferrovieri italiani alla lotta di resistenza sono stati giustamente posti in risalto ieri mattina a Treviso grazie ad un'iniziativa del Dopolavoro e delle associazioni sindacali di categoria che hanno portato alla realizzazione presso gli impianti ricreativo-sportivi di via Benzi, di un monumento ai ferrovieri caduti durante gli anni epici dell'opposizione al nazifascismo.
Il monumento, veramente significativo, è opera dell'artista Fortunato Gaccetta e rappresenta un binario contorto e scheggiato dalle bombe incatenate tra le altre due rotaie mentre dalla base in marmo salgono, stilizzate in ferro, le fiamme dei bombardamenti.
La realizzazione è stata scoperta nel corso di una semplice cerimonia con intervento delle autorità cittadine e di esponenti delle associazioni partigiane. C'erano naturalmente anche dirigenti delle Ferrovie, e tra questi il direttore del compartimento ing. Castellani, e dei sindacati Sfi, Saufi, Siuf.
Dopo la disposizione di corone di alloro il segretario dello Sfi, Lino Armenti, ha brevemente sintetizzato il significato della manifestazione dando quindi la parola all'ex comandante partigiano "Nagi" (Elio Busato) che ha ricordato quanto i ferrovieri con coraggio, con senso di solidarietà umana, con profonda partecipazione agli ideali della Resistenza hanno fatto dall'8 settembre 1943 alla liberazione, esponendosi e pagando di persona. L'oratore ha concluso richiamando tutti ai valori della Resistenza ed alla difesa della libertà e della democrazia, con tanti sacrifici conquistati, Hanno poi parlato anche il presidente del dopolavoro ferroviario rag. Corrado Bottone ed il sindaco di Treviso prof. Enrico Azzi.
Le autorità e gli invitati hanno poi visitato gli impianti del centro sportivo di via Benzi che sorgono su un'ansa del Sile e che, come ha fatto notare il presidente Bottone, sono stati aperti a tutti, messi cioè a servizio dell'intera comunità». (Il Gazzettino, cronaca di Treviso, lunedì 14 giugno 1976).

Fino a qualche anno fa in occasione del 25 Aprile il monumento di via Benzi - DLF rientrava nel “giro dei cippi” che, nel programma 1994 prevedeva — prima della celebrazione ufficiale al mausoleo dei partigiani e al palazzo dei Trecento —  «deposizioni di corone di alloro» anche ai monumenti, cippi o lapidi di: Fontane, Strada delle Corti, Canizzano [Maleviste], Piazzetta Caduti dei lager - ex Internati,  Riviera Garibaldi e via Scarpa. (Pozzobon - Rizzi , Venti mesi nella marca..., p. 19).
Programma rispettato fino al 2010, 65° anniversario della Liberazione, ma poi gradualmente ristretto alla sola deposizione di una corona alle Maleviste in periferia e all’ufficialità cittadina. (Cfr. celebrazioni del 25 Aprile  2017 su Oggi Treviso).
Nel 2017 - "come ogni anno" - c’è stata comunque una celebrazione della ricorrenza al monumento di via Benzi, ma ad opera della sola Filt CGIL e con la malinconica presenza di otto persone, più il fotografo.


La FiltCGIL di Treviso celebra il 25 aprile 2017 al monumento di via Benzi (DLF)


I ferrovieri partigiani del comune di Treviso uccisi durante la Resistenza e ricordati nel monumento del cimitero di San Lazzaro sono:


Complessivamente, in provincia di Treviso, i ferrovieri partigiani caduti (compresi gli appartenenti al Genio Ferrovieri) sono undici *
Oltre ad Angeloni, Chiarello e Quarisa furono uccisi:
Cimenti Giacomo, nato nel 1925 a Breda di Piave, ferroviere, morto il 28 marzo 1945 a Lancenigo. «Di pattuglia fra Catena e Villorba, cadeva colpito a morte per raffiche di mitra e lancio di bombe a mano».
De Liberali Adolfo, nato nel 1924 a Vedelago, ferroviere, morto il 30 aprile 1945 a Fanzolo «durante uno scontro con una colonna tedesca in ritirata».
Fiorito Lino, nato nel 1922 a Spresiano, cantoniere FS, morto il 25 ottobre 1943 a Ilirska Bistrica (SLO). «All’atto dell’armistizio passava nelle file dell’esercito jugoslavo, cadendo in combattimento».
Natalone Delio, nato nel 1921 a Pederobba. 7° Btg. Genio Ferrovieri. Morto il 2 maggio 1945 a Trento «durante azione bellica nei giorni della Liberazione».
Pasqualotto Carlo, nato nel 1920 a Castello di Godego. Caporale del Genio ferrovieri. Morto il 6 luglio 1944 in Germania. «Catturato dai tedeschi a Bolzano, internato nel lager I/B, veniva dichiarato disperso».
Santi Luigi, nato nel 1911 a Castello di Godego. Ferroviere militarizzato. Morto il 29 aprile 1945 a Castello di Godego. «Nel corso delle operazioni contro reparti tedeschi in ritirata, veniva colpito a morte».
Sartori Alessandro, nato nel 1923 a Codognè. Rgt. Genio Ferrovieri. Morto il 16 marzo 1945 a Campomolino di Gaiarine. «Dilaniato dallo scoppio di ordigno esplosivo in preparazione per un sabotaggio».
Tonon Pietro, nato a Vittorio Veneto nel 1916. 2° Rgt. Genio Ferrovieri. Morto il 1 agosto 1945 in Germania. «Catturato dai tedeschi a Lubiana, internato nel lager III/I, moriva per malattia».

* (Da un primo spoglio de "I caduti trevigiani nella guerra di Liberazione", di Elio Fregonese).





Il manifesto dei ferrovieri comunisti di Treviso, dopo la Liberazione


COMITATO DI LIBERAZIONE FERROVIARIO TREVISO

FERROVIERI

La nostra Treviso è libera!
Gli ultimi residui dello schiavismo fascista: i briganti neri – che con i loro nefasti misfatti
hanno terrorizzato e torturato il popolo – sono stati distrutti.
Il barbaro invasore nazista – che ha portato la distruzione del nostro paese – è stato cacciato
per sempre.
Vada il nostro plauso e la nostra riconoscenza al magnifico eroismo dei partigiani della
Marca Trevigiana e delle valorose truppe Alleate che ci hanno dato la libertà.
FERROVIERI
Ora che il giogo- nazifascista è finito e tutti gli italiani potranno eleggere un governo
democratico popolare, tutti noi dobbiamo riprendere il nostro posto di lavoro con purità
di intenti e di opere.
Tutti noi dobbiamo tendere ai nostri sforzi per fare della nostra Amministrazione un esempio
di disciplina e di organizzazione.
Le ferrovie devono funzionare per il bene di tutti.
Chi ha tradito, chi ha collaborato con il nemico, chi si è macchiato di infamie sarà punito.
                   
W L’ITALIA  !

Il Comitato di Liberazione dei Ferrovieri di Treviso
                                                            
TREVISO 3 maggio 1945

La trascrizione di questo manifesto è tratta dalla relazione di Angelo Decima sulla Resistenza dei ferrovieri comunisti di Treviso (10 giugno 1945).




Dino Sponchiado, ferroviere e militante sindacale dello SFI, ricorda lo scultore Fortunato Gaccetta e la costruzione del suo monumento ai ferrovieri caduti nella Resistenza
Gaccetta, da ragazzo, era stato garzone nella bottega di Arturo Martini e poi aveva lavorato con Toni Benetton quando l’artista del ferro operava ancora nella sua casa di Sant’Artemio (dove il padre gestiva un’osteria). E con Toni Benetton ha avuto di quelle discussioni di carattere artistico che non finivano più. Poi si era messo in proprio. Il suo laboratorio era un ambiente ristretto ricavato sotto il cavalcavia della stazione di Treviso, vicino alla sede del nostro sindacato.
Era un compagno, un po’ casinista; ha avuto problemi con la famiglia, ma era un artista … ha fatto di quelle cose! Ogni tanto per passare il tempo andavamo basso da lui. C’era sempre questo sporco, questo fumo dentro. Ma era un gusto andarci: sentivi l’odore del lavoro! Lo sentivi sulla pelle. Era officina, fonderia, faceva anche il fonditore … ma era soprattutto la forgia, il lavoro della forgia.
Il monumento l’ha fatto per conto del Dopolavoro ferrovieri, su commissione. Quella che vedi là è rotaia vera, materiale vero, preso dalla ferrovia. Glielo abbiamo portato noi del sindacato, ha lavorato col ferro della ferrovia, e ha costruito un monumento così grande che poi non passava più per la porta. Abbiamo dovuto sfondare il muro, per portarlo fuori.
Dopo ha fatto anche lo stampo dell’originale, ridotto in scala e ne ha ottenute diverse copie, fuse in ferro come fossero statue. E gliel'hanno comprate vari uffici pubblici, e anche dei privati appassionati di arte.
Intervista a D. Sponchiado, Treviso 1927, file 19031302 (13 marzo 2019), da 01:57:00 a 02:06:00. (Sintesi)