domenica 25 novembre 2018

La Resistenza di una famiglia della borghesia trevigiana - (Famiglia Merenda, 1943-1945)

Ottaviano Merenda e Elena Rubinacci, genitori del caduto
partigiano di Treviso Giorgio Merenda. 
Una Resistenza, quella a cui prende parte la famiglia Merenda, che verrebbe da classificare senza tentennamenti come "patriottica"; una lotta cioè in cui la visione antitedesca e di liberazione nazionale ha il sopravvento su quella della guerra civile contro i fascisti o della guerra di classe contro il capitalismo. Ma le sfumature non sono così nette.
Perché se da una parte c'è il capofamiglia Ottaviano, militare di professione, ten. colonnello del XIV Corpo d'Armata impegnato in Montenegro con compiti di controguerriglia che, catturato dai tedeschi a Podgorica e internato in Germania si rifiuta di aderire alla RSI, dall'altra c'è il secondo dei tre figli, Paolo, che abbandona l'esercito di Salò e, con tipica azione da guerra civile, viene ricercato dai fascisti della GNR di Treviso, rischiando la fucilazione. C'è poi la figlia primogenita Anna, che lavora al Distretto militare e nel contempo ha contatti con l'antifascista milanese Lia Bellora gravitante attorno al «Raggruppamento nazionale repubblicano socialista che si propone di costituire un ponte tra fascismo e opposizione in funzione antimonarchica e anticapitalista».
Infine c'è Giorgio, il figlio più giovane, militante in una formazione a guida DC, la "Cesare Battisti" di Castelfranco V.to, che viene ucciso a San Marco di Resana mentre lotta contro il tedesco invasore nei giorni dell'insurrezione. La sua morte sembra confermare una visione patriottico-risorgimentale della Resistenza in casa Merenda.
Tanto più che tale visione è ulteriormente sottolineata nell'opuscolo con i discorsi pronunciati in commemorazione della morte di Giorgio dal suo professore del Pio X e da un suo compagno di scuola. (Vedi fra i Documenti ).
Volantino dell'organizzazione partigiana "Fronte della Gioventù",
[1944], trovato fra le carte dei fratelli Merenda di Treviso.
A chiudere il cerchio, nel materiale che il nipote di Giorgio ha trovato fra le carte degli zii, ci sono due volantini. Uno del "Fronte della Gioventù" che invita a partecipare alla resistenza nelle brigate Garibaldi, e un altro dei "distaccamenti d'assalto Garibaldi del Veneto" che con veementi parole d'ordine impregnate di passione politica invita tutti, «comunisti o liberali, socialisti o cattolici, seguaci del Partito d'azione o repubblicani ... [a riunirsi] nella lotta comune per la cacciata dell'invasore tedesco, per la distruzione del fascismo, per l'indipendenza e la libertà dell'Italia».
Una lotta di resistenza che è difficile insomma da incasellare sotto una sola motivazione, anche in una famiglia della borghesia urbana il cui capofamiglia è un alto ufficiale dell'esercito.

Il ritorno del padre dalla prigionia e la notizia della morte del figlio

Ten. col. Ottaviano Merenda, padre del partigiano Giorgio: diario di prigionia in Germania, parte finale,
il ritorno a casa. Giunto alla stazione di Treviso, Ottaviano viene a conoscenza della morte del figlio.
(Il diario originale, scritto a matita, è stato recuperato e trascritto dal nipote Fabrizio Galeotti).

Trascrizione

«21 Agosto [1945]. Seguita il viaggio. … Alle ore 18 entro nello stato austriaco. […] Attendiamo di transitare per la Svizzera.
22 agosto. Alle ore 1,45 giunge il treno dalla Svizzera. Alle ore 3 si parte. Il treno svizzero è molto bello ed i vagoni sono di III classe molto puliti e lussuosi. Si viaggia tutto il mattino. Si attraversa la Svizzera da nord a sud. Nel cantone italiano riceviamo il saluto degli italiani. Alle ore 11 giungiamo a Chiasso da dove, caricati su autocarri, veniamo trasportati a Como. Qui una organizzazione perfetta sia per vettovagliamento come per tutte le altre operazioni rende la nostra permanenza lieta. Si pernotta a Como.
23 agosto. Si parte da Como per Milano. Alle ore 10 giungiamo a Milano da dove si parte per Verona. Qui mi distacco da Job e Vaglio e giungiamo alle ore 22. Si parte da Verona alle ore 23.
24 Agosto. Giungo a Mestre alle ore 4. Alle 5,30 parto da Mestre per Treviso in un treno operaio. Giungo a Treviso con il cuore in sussulto dalla gioia alle ore 7.
Alle ore 7 nell’ufficio del Capo Stazione apprendo la morte del mio amato Giorgio.
Non ho la forza di chiudere queste mie note, questi miei appunti dopo circa 2 anni di infiniti dolori, perché la notizia ferale della perdita del mio amato figlio, caduto eroicamente da partigiano, ha squassato il mio animo. »




DOCUMENTI

Il Bando Graziani del 18 febbraio 1944

 1 -18 febbraio 1944: il "Bando Graziani" (ufficialmente ''Decreto Legislativo del Duce'') commina
la pena di morte "mediante fucilazione nel petto" a disertori e renitenti delle classi 1922-1923-1924.
 (Gazzetta Ufficiale d'Italia - RSI - stampata a Brescia, 21 febbraio 1944)


Il decreto Mussolini del 18 aprile 1944


  2 - 18 aprile 1944: il "Decreto Mussolini" riconferma la pena  ai soldati che dopo l'8 settembre 1943
hanno abbandonato i reparti (questa volta "mediante fucilazione nella schiena"),
ma al contempo - all'art. 3 - promette l'esenzione della pena a coloro che si "costituiscano volontariamente"
entro il 25 aprile 1944, un mese dalla pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale d'Italia", [stampata a Brescia].

La fucilazione di cinque alpini disertori

3 -10 maggio 1944 - Cinque disertori fucilati. Il comandante del 29° Comando Militare Provinciale (Treviso) della RSI
col. Giorgio Milazzo, comunica l'avvenuta "fucilazione alla schiena"di cinque alpini che dopo essersi costituiti
al Centro Raccolta Alpini di Conegliano, avevano disertato sull'Appennino emiliano.
(Archivio Istresco. n. inv. 15, fondo RSI, fasc. Comminazione Pena di Morte). Fucilazione avvenuta a Parma.
Di Luigi Nerotti non si conosce la provenienza*. Degli altri quattro: Oscar Berlanda, operaio e
Antonio Nicoletti, bracciante, erano di Crocetta del Montello; Bruno Grespan, operaio, abitava a Nervesa,
e Luigi Dal Cin, contadino, a Codognè. (Fregonese, I caduti trevigiani nella guerra di liberazione...).
*Nota del 14.4.2020: grazie alla segnalazione di Roberto Fontana conosciamo ora anche il nome corretto e la
provenienza del primo alpino fucilato: non Luigi Nerotti ma Luigi Merotto, nato a Giavera del Montello il 5.6.1920.
(Cfr. https://www.fondazionersi.org/caduti/AlboCaduti2019.pdf)

Ascolta"Sei minuti all'alba", canzone dedicata da Enzo Jannacci al padre partigiano: 
un disertore della Repubblica Sociale Italiana passato ai "ribelli" è in procinto di venir fucilato...

A volte Enzo Jannacci, nei concerti, introduceva questo brano con le parole "Vorrei dedicare
questa canzone a mio padre, è importante ricordare visto che oggi c'è chi oggi confonde la
Repubblica di Salò con la Repubblica di San Marino". (Cfr. il sito Canzoni contro la guerra).


La diserzione dall'esercito della RSI di Paolo Merenda



4 - Il 30 maggio 1944 Paolo Merenda abbandona il 29° Deposito Misto Provinciale di Treviso
con sede a Istrana e dipendente 29° Comando militare provinciale (CMP) della RSI di Treviso,
e si unisce ai partigiani. Se catturato - ai sensi dell'art. 4 del Bando Graziani del 18 febbraio 1944
confermato il 18 aprile da Mussolini - sarebbe stato condannato a morte mediante fucilazione.


In morte del partigiano Giorgio Merenda: un opuscolo commemorativo 

Al collegio vescovile Pio X di Treviso, dove il partigiano caduto frequentava la terza liceo classico, furono tenuti due discorsi in sua memoria, entrambi alla presenza della mamma e dei fratelli e in assenza del padre ancora in prigionia.
Il primo, di un professore, è di tono intimista e ruota attorno alla personalità di Giorgio “uno fra i più simpatici, e perché no, fra i più biricchini dei miei scolari”. L’insegnante ne ricorda la vivace intelligenza ma al contempo lo scarso impegno nello studio; il fatto che fosse un ribelle, ma “un sano ribelle [che] non era nato per servire” e si faceva vanto del suo sette in condotta.
Dopo l’8 settembre Giorgio Merenda si era maturato e “un velo di tristezza aveva toccato il suo carattere”, e quando arrivò “l’appello della Patria” […], rispose: “Il pensiero costante del padre lontano, che non aveva ceduto, e non aveva avvilito la sua divisa” lo portò a imbracciare le armi combattendo con i patrioti della Battisti e morendo da eroe.
Il ritratto che l'oratore fa del giovane caduto partigiano mira, giustamente, a consolare i familiari presenti, ma non accenna per nulla al fatto che i patrioti con cui Merenda aveva combattuto volevano liberare l’Italia dal fascismo, che fino all’ultimo fu alleato del nazismo.
All’inizio del nuovo anno scolastico*, un compagno di scuola di Giorgio, pronunciò un altro discorso di commemorazione, che occupa nell'opuscolo nove pagine grondanti di una retorica che è francamente difficile distinguere da quella in voga nel passato regime. Vi si ricorda l'Italia di Curtatone e Montanara, quella del Piave e di Vittorio Veneto; si divaga. Si parla di eroismo, del “sacro sangue del Compagno che ha fecondati i nostri cuori e le nostre menti”. Si parla di tutto, ma mai una volta che sia nominata la parola “fascismo”, come se in questa guerra crudele l'Italia fosse precipitata per caso e non per logica conseguenza di un ventennio di dittatura fascista; come se nel collegio Pio X non vi fosse stata per lunghi mesi, fra l’estate del ’44 e la Liberazione, la sede della XX Brigata Nera fascista, che aveva fatto della tortura nei confronti dei partigiani una pratica costante.
In entrambe le commemorazioni, ma in maniera più marcata in quella del compagno di scuola di Giorgio, si può dire che ci sia un evidente tentativo di rimozione dei guasti provocati dal fascismo italiano e dei fatti terribili avvenuti all'interno delle mura del collegio vescovile.
Sì, fra il 1943 e il 1945 in Italia ci fu un nemico, ma uno solo. E straniero. Erano "i tedeschi" che già una volta gli italiani avevano fermato sul Piave, era la "follia tedesca" che nell'aprile del '45 volgeva al "suo fatale epilogo", era la “belva germanica" che aveva "ingoiato con le affamate sue fauci” il povero papà del partigiano Giorgio Merenda.
Ed è proprio per questa testimonianza di un modo monco di analizzare "a caldo" la realtà che l'opuscolo merita la fatica della trascrizione e lo spazio per la pubblicazione.

* Qualcosa non quadra nelle date del primo e del secondo discorso riportate nell'opuscolo.
Il primo risulta pronunciato il 2 maggio 1945 alla presenza della madre e dei fratelli, ma il due maggio (alle ore 16) è il giorno della morte di Giorgio Merenda, nella sezione dell'Ospedale di Castelfranco V.to di Torreselle di Piombino Dese, tre giorni dopo il suo ferimento a S. Marco di Resana.
Il secondo discorso, che risulta pronunciato il 22 ottobre, ricorda il padre Ottaviano che ancora langue in prigionia. Il che non è vero, perché dal diario dell'interessato sappiamo che il suo ritorno a Treviso avvenne il 24 agosto 1945.



Nota: il testo qui riprodotto, nell'opuscolo originale si estendeva su dieci facciate che,
per esigenze grafiche, sono state ridotte a sei, senza intaccarne il contenuto.

Trascrizione

Giorgio Merenda - n. a Napoli il 20 settembre 1925 / m. a Cavasagra (Treviso) il 2 maggio 1945

Commemorazione tenuta dall'Insegnante il 2 maggio 1945, ai compagni di scuola, alla presenza della madre e dei fratelli dell'Eroe - il padre, assente, non aveva ancora fatto ritorno dai campi di prigionia in Germania.


«Giorgio Merenda; il nome solo Giorgio, suscita in tutti noi - compagni di scuola ed insegnante - una profonda commozione.
Mai avrei pensato che, proprio a me, sarebbe toccato commemorare uno fra i più simpatici, e perché no, fra i più biricchini dei miei scolari. Giorgio: lo ricordo, un fanciullino che il caro Prof. Bertocco mi aveva affidato assieme a voi, nel lontano 1939, con queste parole scultoree: "Merenda, tutto bocca, anche il cuore, l'ha in bocca!". E fu così. La sua vita fu decisamente studentesca: non valeva la pena essere il primo della classe, e poteva essere fra i primi, di intelligenza sveglia com'era - perché, diceva lui "non voglio lasciarmi compatire".
Amico di tutti, di carattere aperto, sincero, senza falsi pudori, onesto e stimato, era cercato per il suo allegro conversare che rivelava il vivace e buon napoletano, dosato però di tanto buon senso veneto.  Passavano gli anni, ed anch'egli passava le sue classi, una dopo l'altra, senza fretta, educando il suo cuore, formando il suo carattere: alla fine d'ogni anno c'era anche per lui la settimana critica, l'attesa angosciosa: s'avvicinava a me: "Professore, lo so in latino non passo, forse nemmeno in greco: siamo sinceri! ma si metta una mano sulla coscienza: ad ottobre ... sì!". E non mi lasciava, finché io, un po' seccato, non gli avessi detto: Ma si, va! E sapeva leggere sul mio volto la risposta: e in tre mesi di vacanza, non consumava i libri... , e poi era promosso... . Non era studioso, ma intelligente, e dava affidamento di riuscire nella vita.
Non sgobbava: non poteva farlo: non ve lo pensate qui, fra voi, con quel suo sorriso sornione e buono, che, alle mie proteste, sottovoce tra una fregatina di mani e una smorfia, mi disarmava con quel suo: oh! Professore! non scherziamo!
Così era Giorgio! Non portava rancore, anche quando le parole potevano farlo intravvedere: era di animo buono.
Gli anni passavano: i suoi compagni accennavano a diventare uomini: ma Giorgio era sempre lui: il piccolo Merenda: tutto bocca: cresceva sì, ma piano, diveniva sì più serio, ma a modo suo. Era suo vanto il 7 in disciplina, e non se ne doleva: sapeva che non era cattiveria la sua, ma vivacità; era il partigiano della classe, se così si possono battezzare gli studenti veri, d'animo franco, simpatico ai compagni, e più ai Professori.
Ma, gli ultimi anni, avevano trasformato anche Giorgio; pur conservando la sua indimenticabile fisonomia spirituale; dall'8 settembre '43 un velo di tristezza aveva toccato il suo carattere, il padre suo che, dignitosamente, pativa per la sua onestà patria, agiva silenziosamente sul figlio, che vedeva la sua famiglia avviarsi al doloroso calvario, lunga via, non ancora interamente percorsa: povero Giorgio, e padre sventurato, non si sarebbero visti mai più.
Si vide allora chi era Giorgio, quale cuore fosse il suo, e il figlio non fu indegno del padre.
Voi tutti ricordate: era un ribelle, un sano ribelle: non era nato per servire, per supinamente obbedire, ma aveva la sua dignità, di studente, che andava oltre alle imposte miserie della scuola.
Voi lo sapete: non poteva tacere, e spesso arrivava lui, con la sua icastica espressione, là dove l'insegnante pensava di condurre, inavvertito, le inesperte menti giovanili, e, troppo esplicito, si buscava il sette in disciplina "politica" con il conseguente consiglio di classe che "approvava il simpatico Giorgio pur dovendolo ufficialmente condannare".
Potrei qui ricordare innumerevoli episodi: come sorrideva di cuore, quando, finalmente, gli davano ragione!
Mi portavano una circolare, e, mentre io leggevo, egli vicino a me: eh!stupidaggini! Professore! E sapevo che, in cuor mio, ridevo, pur nella serietà del momento!
Vennero poi i mesi della dispersione: Giorgio seppe mantenere fede ai suoi ideali.
S'era fatto grande anche lui, e serio, erano pochi i suoi anni, ma ormai si sentiva uomo: non era più il piccolo Giorgio del '39.
Sentì l'appello della Patria, e rispose: il pensiero costante del padre lontano, che non aveva ceduto, e non aveva avvilito la sua divisa, aveva educato quell'anima.
Venne l'ora: e Giorgio era pronto: non più il partigiano di scuola, ma il patriota: la tempesta lo travolse, e pareggiò la sua giovane vita a quella degli innumerevoli eroi d'Italia: aveva 18 anni.
Colpito a morte il 30 aprile a S. Marco di Resana, mentre, con un reparto della "Battisti", accorreva in aiuto ai patrioti di Castelfranco, fu raccolto morente e portato alla madre sua: il giovane eroe rivide la mamma, e, nel bacio di Dio, il 2 maggio l'anima sua generosa  fu accolta nella luce eterna. Morì come un Santo il mio Giorgio - disse la mamma.
L'ultimo istante fu l'eco di tutta la sua vita, sereno tramonto di una breve giornata, percorsa con la spensieratezza, col cosciente sorriso dei forti, che lasciano in tutti noi l'amarezza del distacco; ma la certezza di vederlo là, dove ora è il primo, lenisce il nostro dolore, nella vigile attesa.
Cari giovani, nella tristezza di Questo giorno, sappiate meditare sulla tomba ancora fresca del vostro compagno di scuola; guardate la madre in angoscia e pensate al padre di Giorgio non ancora tornato dai campi del dolore; giurate di essere degni dell'amico caduto; la vostra, la mia classe, consacrata dal sangue generoso di Giorgio Merenda, ha ancora il suo volto battagliero e sano proteso alla vita; conquistatela questa via, nella dignità e nella fede in Dio».

Ex allievi - Collegio Pio X Treviso (1940 ca.) - 
Gruppo di allievi del collegio vescovile Pio X di Treviso. Giorgio Merenda
è l'ultimo a dx. in ginocchio. (Archivio privato Fabrizio Galeotti).


Commemorazione tenuta dai compagni di scuola il 22 ottobre [?] 1945 a tutti gli amici del glorioso Caduto, presenti i familiari

«Studenti trevigiani! Giovani che avete vissuto le grandi ore dell'epopea partigiana! Italiani, che portate negli spiriti e taluni nelle carni, gli oltraggi inflitti dall'ignominia e dalla barbarie nemica!
Soprattutto a voi, parte pura ed eletta della Nazione che, con lenta, faticosa marcia, sta risollevandosi dal profondo abisso in cui era caduta, fu rivolto l'invito ad intervenire a questa cerimonia, per celebrare degnamente l'eroico sacrificio del nostro grande compagno di scuola Giorgio Merenda, e per rendere al glorioso Caduto, l'estremo addio, a testimonianza di una indefettibile amicizia e di una incondizionata ammirazione.
Accorso all'appello disperato della Patria, Egli scomparve tra i flutti tempestosi dell'immane battaglia.
A Lui, in questo momento, va il nostro pensiero commosso e deferente; a Lui il plauso dei compagni che non dimenticano.
E, nel celebrare questo gesto, noi non intendiamo né oscurare, né trascurare quello degli altri studenti del Pio X, che precedettero e seguirono Giorgio Merenda al traguardo della gloria, ma intendiamo anzi raddensare in uno, l'omaggio di tutti i vivi a tutti i Morti per questa nostra Italia.
Giorgio Merenda sia dunque alle nostre parole fine e mezzo, nell'esaltazione della Causa grandiosa, sublime anelito, per cui si seppe, si volle, si può perire, si dové perire.
Italiani, ricordate?
Aprile 1945: la follia tedesca volge al suo fatale epilogo, in tragico tramonto di sangue; la Nemesi, tremenda e ineluttabile, abbatte, a colpi d'ariete, le ultime vestigia d'un passato d'orrore, di strage, di morte.
Il mondo intero, unito nell'unico imperativo, sta lottando selvaggiamente, per dar fine al massacro che, da troppo tempo, lo insanguina e sconvolge.
E l'Italia, l'Italia di Curtatone e Montanara, del Piave e di Vittorio Veneto, è nuovamente in piedi, a quel posto di combattimento, che Dio e la Storia le hanno, imprescindibilmente, assegnato: i patrioti italiani, che il nemico stimava se non come l'indegna e sfiduciata progenie di quello che fu un grande popolo; quegli italiani, non ritenuti più in grado di poter dare un proprio volto all'evento storico, stanno riscattando, con magnifico slancio, le vergogne del passato o le miserie del presente. Essi tracciano, ad orme cruente, la via della riscossa e dell'onore.
Giornate di fede e di passione, di sacrificio e di sangue, giornate in cui ognuno sentì vibrare nel profondo del proprio spirito, l'orgoglio della Stirpe e la grandezza dell'Idea.
Ma, la dura legge della vita, vuole che, a questa, conduca la morte; e il cantico solenne di gloria e di vittoria da molti eroi non si è potuto udire.
Molti uomini, molti giovani, molti ragazzi, hanno lasciato lassù, sulle gole nevose delle Alpi, sui sacri dirupi del Grappa, sulle aspre doline del Carso, sull'Appennino italico, sulle nostre belle pianure, il loro tormentoso sogno della Madre libera e grande. E, anche tra di noi, giovani studenti liceali, la furia ciclonica della guerra ha scavato il solco sanguinoso del suo triste cammino; anche su di noi è aleggiata la Morte, che ha ghermito, col suo artiglio crudele, chi, più di tutti, l'aveva sprezzata: Giorgio Merenda.
Giorgio Merenda: un nome che è un simbolo, una fede, un'idea.
Cadde, falciato dalla mitraglia di quel nemico ch'egli aveva sempre combattuto: nel campo della fede, con la parola veemente e convinta prima; sul campo di battaglia poi, quando poté finalmente impugnare, contro l'invasore, l'arma bramata. Cadde, dopo titanica, impari lotta, mentre stava vendicando le inumane sofferenze inflitte all'intrepido padre prigioniero in Germania; cadde sulla linea del fuoco, su quella ribalta storica, dinanzi a cui si alternarono nei secoli gli Eroi di tutte le guerre e di tutto il mondo, patrimonio imperituro degli uomini e di Dio.
Giorgio Merenda, ora, non è più. Egli è salito lì, al Cielo dei Grandi, tra coloro che vissero soltanto per morire, tra coloro cioè, cui un breve ma denso destino, ha affidato una funzione storica di gloria e di martirio.
Noi l'avevamo conosciuto nei lontani tempi, in cui le uniche nostre preoccupazioni erano dovute allo studio; l'avevamo conosciuto a scuola: e se la scuola non costituisce vaglio probativo assoluto dei cervelli, essa, in compenso, svela, infallibilmente, i cuori.
Quante volte lo vedemmo accettare serenamente l'ingiusto castigo per il fallo altrui! Quante volte lo vedemmo balzare alla difesa dei compagni colpiti dalla sanzione immeritata, con la sua calda esuberanza!
E questo contegno gli avvicinava tutti noi: tutti eravamo a Lui vincolati da pegni di gratitudine e di simpatia.
Uniti negli "scioperi" bianchi e rossi, perché per noi lo studio era una condanna che aveva del diabolico; uniti nella sempre felice conclusione della annate scolastiche, noi, e parlo ora, di quel gruppetto tradizionale, da cui dipese, per parecchi anni, la calma e la bufera in tutta la classe, noi ebbimo modo di conoscere Giorgio Merenda: e conoscerlo, volle dire amarlo.
Che importava ch'egli non sapesse studiare, quando pronto era il suo ingegno, e immenso il suo cuore? Che importava che a scuola, claudicante fosse la sua marcia, del resto mai interrotta, quando, della sua presenza in classe, tutti n'ebbero giovamento, per la proverbiale, spericolata, generosità?
Invero, la vita studentesca dell'Eroe, fu degno preludio del Suo splendente destino, che ormai, impaziente batteva alle porte.
E la sua perdita ci ha colpiti nel profondo del cuore: rimanemmo sorpresi, attoniti, increduli: Giorgio caduto? Giorgio, l'allegro e intelligente compagno della nostra adolescenza, croce e delizia dei suoi maestri, che intuivano in lui, insofferente d'ogni giogo e d'ogni sopruso, l'anima grande, l'anima aperta, forgiata ai più alti destini; questo Giorgio, così ricco di vita, giace ora immoto nel sonno eterno? Ma perché lui, e in quest'ora di gaudio, in cui si affermano e si realizzano le speranze di tutto un popolo, proprio lui che nelle sue spesse notti insonni, piene di fascino e di dolore, aveva sognato, in martellante delirio, la Patria nuova, libera da ogni servaggio, schiava non d'altri che di sé e delle sue grandi memorie?
No, non ci sembrava possibile. E nell'orribile certezza, tuttora v'è in noi un senso doloroso di smarrimento e di incredulità.
Ma, come un tempo, il pianto delle madri romane, chine sulle ceneri dei figli caduti per la patria, diveniva preghiera, al mistico canto del popolo guerriero: "dulce et decorum est pro patria mori", così, oggi, a tutti coloro che l'amavano come l'amavamo noi, d'affetto più che fraterno, non si arresta l'urlo di gioia e di vittoria nella strozza, perché sanno ch'egli considerava quella Battaglia, un imprescindibile dovere, e un sacrosanto diritto, per i quali avrebbe dato, senza esitare, il dono prezioso della vita.
E Giorgio sapeva di dover morire: nell'ora tormentosa della vigilia, egli sentì tutto il peso glorioso del fato. Ne accennò agli amici con sguardo sereno e fermo cuore. Forse era la voce dell'Eternità misteriosa che gli sussurrava, da lunge, il suo solenne richiamo. Certo è che nel presago spirito, nulla tremò: nulla poteva tremare, perché Egli ben sapeva come una giusta morte sia fine ma sia principio, sia tenebre ma sia splendore.
Soltanto, nel turbinio delle memorie che gli riportavano brani sconnessi di vita, un pensiero fisso dominava: la madre. Povera mamma, quante lacrime, quanta passione, quanti dolori per questo vulcanico figlio! E Giorgio, nell'ansia disperata degli istanti che precedono il cimento fatale, rivede il volto adorato; rivede se stesso fanciullo; risente il trepido palpito che gli scorreva nelle vene quando si cullava sulle amorose ginocchia materne; risente le voci arcane della sua adolescenza, giorni sereni, ormai irrimediabilmente fuggiti, in cui la mamma era il centro del suo piccolo mondo, che ora s'è ingigantito col passare degli anni.
Ricordi. Ricordi nostalgici di un tempo non troppo lontano, in cui non si sapeva ancora che cosa fossero la morte e la vita. Ricordi, fantasmi, che in questi momenti decisivi, riempiono il core di infinita tenerezza.
E un pensiero commosso al padre lontano, che la belva germanica ha ingoiato con le affamate sue fauci, e che ora sta languendo in qualche ignota e desolata prigione nazista.
Ma la vendetta è vicina: un secco comando, e via, contro il nemico, verso l'ignoto, sulla strada da cui non doveva più far ritorno.
Ma tu, piccolo grande Giorgio, che, a prezzo della vita, ci hai tragicamente dimostrato, come, pur non raggiungendo sui banchi di scuola, né l'otto, né, talora, il sei, perché non si è nati per studiare, come, dicevo, si possa essere più grandi, oh! molto più grandi, dei classici, austeri, inutili "cannoni", sei tornato ora fra noi, più vivo e presente che mai, anche se il sonno senza risveglio ti colse nel fiore della prima giovinezza.
No, tu non morrai in noi. Non morrai, perché, di te, vive purissima la grande fede, quella fede, che ti indusse a muovere, col sorriso sulle labbra, gli eterni passi all'ara del sacrificio. Per te ci è balenata una certezza che vale tutta una vita: quella per cui esistono dei supremi valori che vanno oltre la morte, oltre il destino, oltre il tempo, oltre lo spazio, fattori di un credo ideale e incoercibile e che intuisce solo la mete di chi ha vissuta la vicenda terrifica e fascinatrice della passion di patria.
E non è, Giorgio, la nostra, vana retorica, necessaria quando manchi il fuoco vivificatore di una grande realtà. Quello che noi tracciamo è il povero quadro di un soggetto immortale, di cui non possiamo cantare l'elogio, perché l'elogio, tu stesso l'hai scolpito, a lettere di sangue, sull'Albo d'oro della Gloria.
Noi possiamo soltanto narrare al popolo il gesto sublime d'uno dei suoi figli migliori, affinché resti documentato, oltre che nel cuore degli amici, nelle pagine della storia, il generoso, incondizionato contributo, dato dagli studenti italiani per la risurrezione della Patria.
Tu puoi, ora, Giorgio, fissare con sguardo altero, l'occhio imperioso del patrio, fatidico, millenario andare: di là tu traesti la forza, di là tu traesti l'esempio, di là tu traesti il viatico, per assurgere alle incontaminate vette d'un leggendario ma non mitico Olimpo, su cui garrisce, al vento che non ha fine, l'insegna universale della virtù guerriera.
E la vermiglia aureola che nel nostro pensiero ti incorona, sarà per noi monito e meta, oggi, domani, sempre.
L'animo e l'opera dei grandi è infatti un qualchecosa, contro cui il polveroso verdetto d'oblio d'una plurisecolare sentenza umana, nulla può, e dalle macerie dei tempi, che in sé nascondono la immutabile tragedia delle generazioni, scaturisce, come il monte dalla terra, un monumento grandioso, "aere perennius".
Per tutto questo, sappi, Giorgio, che, se al momento del tuo trapasso v'ebbe ad essere un uomo in meno sulla terra e un eroe di più in cielo, sappi, ripeto, che per noi vi fu, vi è, e vi sarà, sempre e soltanto, un eroe di più sulla terra.
Sì; Giorgio!Anche se tu già conosci il mistero dell'oltre tomba; anche se già varcasti la soglia fatale; se già chiudesti gli occhi al mondo terreno, per aprirli a quello celeste, dall'ombra silente dell'avello che ricopre la straziata tua spoglia, si leva una Luce inconfondibile, che ci addita, categoricamente, il cammino.
E per questo, appunto, noi non ti ricordiamo: si ricorda ciò che visse in passato, e tu vivesti soprattutto caduto.
Chine le fronti reverenti, noi rendiamo onore al sacrificio supremo, mentre porgiamo, al crogiolo del martirologio italico, un nuovo nome, il tuo, che, fuso con l'altrui nell'eterna gloria, sia, per questa fatale terra patria, fulgida, perenne diana, d'ogni ardire e d'ogni riscatto.
Oh ventata eroica che hai rinverdito e scosso, con impeto primaverile, speranze ed animi, ventata eroica che in te porti lo spirito grande di Giorgio Merenda, lancia, nel tuo volo trionfale, la lieta novella al mondo! Dì che l'Italia è risorta; dì che l'Italia non giace; dì che l'Italia è in marcia; dì che sul suo pur oscuro orizzonte, si stagliano i volti leonini dei suoi cento Eroi, fari di guida nella tenebra tempestosa; dì che dalle sue rive insanguinate, calde ancora della pugna rovente che, or è un ventennio, qui, diede l'Italia agli Italiani, il Piave sacro, dall'Alpe all'Adriatico, ancora s'ode mormorare: "Non passa lo straniero!".
Sì, amici, voi lo sentite! E' questo fremito che ci scuote, lo stesso fremito che scosse il grande cuore di Giorgio Merenda; è quel fremito, per cui un uomo può a tutto rinunciare per l'affermarsi di un grande ideale.
Ascoltiamolo questo palpito, perché è desso che tempra gli individui!
Ascoltiamolo questo brivido, perché è desso la sacra fonte degli olocausti, pietre miliari nella storia dei popoli!
E gli uomini, cui pur è negata su questa terra la visione del vero e dell'errore, perché per ciascuno ciò ch'è suo e quindi univoco, è l'universale, di fronte all'olocausto, di fronte all'istante che raggela le membra sul letto di morte, avvertono l'esistenza di un qualchecosa che non è materia e non è spirito, ma che possiede le prerogative di ambedue, e che si identifica nella fusione fuggente di noi con gli altri. Avvertono l'ineluttabilità della legge che tutti colpisce e nessuno perdona, e per la quale, nel mistero che la governa, la massa è toccata, quando l'uno è colpito.
Ed è in questo, al di sopra del misero, umano travaglio, al di sopra dell'ideologia e della dottrina, che noi riconosciamo il coefficiente unico, per cui vien tradotto ciò che altrove e in altro tempo, è intraducibile.
E fu il sacrificio di Giorgio Merenda, che ha offerta a noi, giovani d'anni e di coscienze, l'intuizione di questa verità; fu il caldo sangue del Compagno indimenticabile che ha fecondati i nostri cuori e le nostre menti.
A Lui, che intuì in sé senza tremore la missione del predestinato; a Lui, che nella cosciente agonia, pronunciò alla madre piangente, parole d'abnegazione e di fede che fanno tremare, parole che lacerano, parole che incidono, parole che io non oso nemmeno ripetere, perché esse esprimono la sintesi di una anima, soverchiante col mio, ogni essere comune; e Lui che morì purché la Patria vivesse; a Lui che nutriva nell'anima ardente santo fuoco d'ira e d'amore; a questo soldato che, con gli altri Eroi, ridiede immacolato il tricolore all'Italia, la Patria, nel'empito incontenibile di gratitudine e commozione, consacrandolo Figlio immortale, rivolge appassionata, un grido solo, immenso come il ruggito fremente del cannone:
GLORIA! GLORIA! GLORIA! »



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