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il 29 aprile 1945, lungo la strada fra Padova e Treviso, fu un susseguirsi di soldati tedeschi in ritirata: erano gli ultimi, ed ormai gli alleati li inseguivano con
il fiato sul collo.
Alle 17, nei pressi della fornace Rossi, ai confini
fra Zero Branco e Quinto ci furono degli
spari.
Racconta G., un abitante del luogo (1):
«Venivano giù i tedeschi in
bicicletta, in bicicletta e con i camion. I partigiani hanno fatto una
sparatoria per fregargli le gomme dei camion, per portargli via la roba.
I tedeschi in bicicletta che erano
più avanti si sono fermati e sono tornati indietro e hanno fatto un
rastrellamento. Mio papà si è nascosto sotto el fascinèr
de egne [la legnaia]. Tutti gli uomini sono spariti, ma ne hanno
beccato due e li hanno uccisi. Uno era un bambino, e prima di sparargli gli
hanno messo un panéto de pan [un pezzo di pane]
in bocca».
Ancora una volta, come già avvenuto in mattinata al Gambero, un atteggiamento oltraggioso nei confronti delle vittime (2).
Ancora una volta, come già avvenuto in mattinata al Gambero, un atteggiamento oltraggioso nei confronti delle vittime (2).
La testimonianza non è di prima mano: chi parla cioè non era presente ai fatti e riferisce il racconto del padre, operaio nella vicina fornace. Ma proprio per questo è interessante, perché dimostra quanto nel narratore sia sedimentata la convinzione che i partigiani abbiano sparato ai tedeschi per “portargli via la roba” , “per fregargli le gomme dei camion”.
Non importa che nella realtà i
partigiani stessero eseguendo, pagandolo a caro prezzo, l’ordine d’insurrezione
generale dato dal Comando Militare Regionale del Cln che prevedeva di disarmare
“le forze armate nazifasciste”, di bloccare “tutte le strade che conducono alla
montagna” ed esplicitamente di sequestrare e tenere a disposizione dei comandi
militari e dei C.L.N. “tutti gli automezzi del nemico”.
La logica con cui questo testimone -
uomo comune, senza particolare preparazione culturale - riporta l’episodio
della guerra di liberazione avvenuto a Zero Branco non è tuttavia dissimile da
quella che sta sotto alla ricostruzione fatta da Angelo Ceron - uomo di cultura
- di quanto avvenne il giorno successivo a Trevignano, dove un reparto tedesco
tenne in ostaggio per quasi tutta la giornata 37 civili del luogo.
Questo l’incipit del racconto di
Ceron:
«Due cavalli rubati, quattro
tedeschi fatti prigionieri. Inizia così, lunedì 30 aprile del 1945, ultimo
giorno di guerra, l’episodio degli ostaggi di Trevignano e di Falzè.
Quella mattina […] i partigiani rubano due cavalli
dei tedeschi… ».
A questo punto una nota a piè di
pagina, per mitigare un po’ il giudizio negativo dell’apertura, spiega:
«Rubare i cavalli
ai tedeschi era un gesto di ostilità bellica. Ma era anche un modo per
procurare carne da vendere alla popolazione…» (3).
In una sola pagina, e all'inizio del
capitolo, per ben tre volte viene ripetuto che i partigiani hanno rubato. Sia pure - dicono loro - a fin di bene.
L’assioma “partigiani = ladri” non
conosce differenze culturali.
Per i due morti alle fornaci di Zero l’anagrafe comunale, usa la stessa formula “morto in strada Noalese per Quinto alle ore 17 - da ferita d’arma da fuoco”.
Entrambi abitavano a poca distanza da dove furono uccisi.
Carlo Fascina, 9 anni, figlio di Rita
(classe 1913) abitava in via Guidini.
Angelo Bof, contadino, 21 anni
abitava in via Bettin ed era figlio di Innocente e di Maria Stramare,
trasferitisi a Zero nel 1927 da Segusino. Angelo era sposato con Amelia Feltrin
e aveva due figli: Clara e Ernesto.
Sia Fascina sia Bof sono ricordati
nel libro di Elio Fregonese dedicato ai caduti partigiani di Treviso.
Per il primo viene usata la formula
generica di caduto “Per la causa della
Libertà”, mentre la brigata Negrin lo colloca fra i suoi caduti quale "partigiano ad honorem".
Questa invece la scheda di Angelo Bof
- in Fregonese, I caduti trevigiani...:
«Partigiano Combattente - Brg.
Negrin - Div. Sabatucci. […] A seguito di scontro a fuoco con un reparto di SS
tedesche in ripiegamento, in località Fornaci, veniva colpito a morte».
- nell'elenco dei caduti della Divisione Sabatucci, Brigata Negrin:
«Bof Angelo di Innocente, nato a Segusino l'8 Maggio 1923. Domicilio a Zero Branco. Caduto in combattimento nella zona di Quinto, contro una colonna tedesca in ritirata».
In precedenza, nel novembre-dicembre 1944, Bof risulta aggregato nella formazione partigiana "Bianco", al comando di Danton, che operava tra Valdobbiadene e Segusino (4).
- nell'elenco dei caduti della Divisione Sabatucci, Brigata Negrin:
«Bof Angelo di Innocente, nato a Segusino l'8 Maggio 1923. Domicilio a Zero Branco. Caduto in combattimento nella zona di Quinto, contro una colonna tedesca in ritirata».
Angelo Bof, partigiano. Segusino 8 maggio 1923 - Zero Branco 29 aprile 1945 |
La figlia Clara conferma che suo
padre era sì partigiano, ma che quel giorno - così ha sempre sentito dire da
sua madre - era uscito di casa senza armi. Un’affermazione frutto - con tutta
probabilità - di una strategia difensiva
messa in atto dalla madre per salvaguardare il buon nome del padre dalle
malelingue del paese.
In via Bettin, una vicina della
famiglia Bof non ha infatti dubbi su come in realtà siano andate le cose e così
commenta la morte del partigiano:
«Poteva starsene a casa ad aiutare suo padre a mungere le
mucche. È morto perché ha voluto.
In Russia [i soldati italiani] hanno dovuto
andarci … invece lui, con la stessa arma che aveva in mano lo hanno ammazzato,
lasciando una vedova e due figli …» (5).
Sul luogo dell’uccisione furono
collocati nell'immediato dopoguerra due cippi in marmo, su base di cemento e a forma di piccola colonna tronca (6). Purtroppo dei due cippi non c’è più traccia, se non nella memoria della figlia e dei pochi abitanti del luogo, a causa di scavi e movimentazione
di terreno che nei decenni successivi hanno interessato tutta l'area .
NOTE
(1) Sintesi della testimonianza registrata a Zero Branco,
via Treviso, il 21 febbraio 2014. File 14022105,
dai minuti 01’38’’ a 03’34’’.
(2) In quell'infilare un pezzo di pane in bocca al bambino traspare
non solo il disprezzo verso il singolo ma anche verso gli italiani tutti, quei
“morti di fame” che si permettono di tendere agguati - e per di più senza
divisa - a quello che si considerava il più forte degli eserciti.
(3) Angelo Ceron, “Gli ostaggi e il capitello di via
Cornarotta” in Trevignano 1945, I fatti della Liberazione,
Comune di Trevignano 2005, p. 116.
(4) Nicoletti, 1999, p. 291.
(4) Nicoletti, 1999, p. 291.
(5) Testimonianza raccolta in via Bettin a Zero Branco il
21 febbraio 2014. File 14022101, minuto 10’54. Le
cause di tanta acredine sarebbero da approfondire. Non è infatti da escludere
che - almeno in parte - risalgano ancora ai tempi dell’arrivo in paese, negli
anni ’20, di questi foresti venuti dalla montagna e mai del tutto accettati. Cfr.
il contrastato ingresso dei “furlani” di Sarmede in una campagna della vicina
località di S. Angelo, nel 1923.
(6) Come quelli dedicati a Marco Graziati e Anelido
Bosello (uccisi dalla brigate nere) e visibili in via Morgana fra Santa
Cristina di Quinto e Istrana.
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