A subirla, un normale partigiano: Arturo Mattiazzi di Postioma (Treviso), cattolico praticante, caposquadra di un gruppo di patrioti del paese e dei dintorni aderenti a “Giustizia e Libertà”.
Per conoscerne i particolari, cediamo la parola al suo parroco, don Giovanni Capoia, che
- con la sua prosa che non si può certo definire “scarna” - rende bene l’idea di come agisse
la XX Brigata Nera Cavallin, il noto reparto di controguerriglia antipartigiana
che operava a Treviso e provincia.
Febbraio 1945. Arresto e torture di Arturo Mattiazzi [Titolo originale]
«Una sera della seconda quindicina del febbraio 1945 alcuni militi della Brigata Nera di Treviso raggiunsero l’abitazione di Arturo Mattiazzi da Postioma, Comandante il Battaglione partigiano “Bruno Chiarello” accusandolo di essere partigiano e intimandogli di consegnare le armi che possedeva lui e i suoi compagni. Il Mattiazzi, appena ventunenne, vistosi scoperto perché un suo amico prigioniero delle stesse Brigate Nere sotto le percosse e le minacce di morte aveva rivelati il suo nome e la sua qualifica, disse di possedere quattro moschetti, due dei quali li consegnò la stessa sera riservandosi di versare gli altri due il giorno seguente essendo nascosti e sepolti in località piuttosto distante da casa. Il capo della spedizione accettò dopo lunga discussione e minacce la proposta del Mattiazzi e gli intimò di presentarsi il giorno dopo coi due moschetti sotto pena di fucilazione, ed in caso che si fosse dato latitante, la famiglia ne avrebbe subito gravissime rappresaglie. La mattina seguente Arturo Mattiazzi, come era solito fare prima di prendere decisioni pericolose e di una certa importanza, espone il caso e si consiglia con il parroco.
Questi stava per consigliarlo a non presentarsi, quando il capo partigiano gli fece conoscere che qualora non si fosse presentato con le armi la famiglia avrebbe dovuto subire tragiche conseguenze. Il parroco cambiò consiglio e gli disse: “Allora se è così presentati però stai attento preparati a tutto, perché nonostante ti abbiano promesso di lasciarti subito in libertà, sono capaci di giocarti un brutto scherzo.”
Da queste ed altre parole pronunciate dal suo fido consigliere, con segni di evidente preoccupazione e con la parola tremante ed interrotta, da qualche lungo sospiro, Arturo era troppo intelligente per non capire il pericolo al quale stava esponendosi e dopo qualche istante di riflessione soggiunse: e se sotto le percosse più crudeli e bestiali, le minacce di morte ecc. mi costringessero a parlare commetto peccato se manifesto il nome dei miei colleghi partigiani?
Il parroco sente gravarsi le spalle dal peso di un consiglio che stava per dare al giovane che era nelle disposizioni di praticarlo alla lettera, e sfuggendo una parola diretta si accontent[a] di dire: “Io se fossi nei tuoi panni mi lascerei uccidere ma non parlerei. Vivi in grazia di Dio, prega il Signore che ti illumini e ti aiuti, sii forte ed io non mancherò di esserti vicino in ispirito e di giovarti come meglio potrò”. Mentre il padre e pastore di anime sentiva una nuova spina ficcarsi nel cuore e pensieroso con la testa fra le mani restava seduto nel suo studio, Arturo scompariva dietro la porta.
Depositati i fucili alla sede delle Brigate Nere Villa Cappelletto in Monigo [1], venne passato alla prigione in attesa dell’interrogatorio. In questa penosa attesa poteva aiutare, sorreggere e confortare i compagni di prigione, quando dall’interrogatorio ritornavano o più spesso erano riportati da altre braccia o in barella, svenuti, sanguinanti con le ossa rotte ecc., più da olio santo che da offrire fondate speranze di guarigione.
Ed ecco anche il nostro Arturo nella sala delle interrogazioni. “Dimmi, chiede il giudice, dove sono le armi che possedete? Quali sono i tuoi comandanti? Qual è il tuo nome di battaglia? Quali sono i tuoi recapiti? Quante azioni hai fatto e quanti fascisti hai ucciso?”.
Come le domande uscivano dalle labbra dell’interrogante così le risposte dell’interrogato erano sempre le stesse “non so nulla di quanto mi chiedete, nulla è vero di quanto mi accusate”.
Durante l’interrogatorio tre sicari delle nere brigate avevano la barbara consegna di bastonare con rabbia feroce la povera vittima, che essendo di fibra robusta e di carattere forte poteva resistere mezz’ora sotto i loro colpi temibili poi esausta di forze cadeva svenuta. Per questo i colpi non cessarono e quando Arturo stramazzato per terra quasi più morto che vivo si accorse che la scaricadi legnate sul suo corpo piagato non era ancora cessata, la carneficina si prolungò per altra mezz’ora, ed ecco il paziente ricadere destituito di sensi e questa volta si riebbe soltanto in prigione fra le braccia di compagni di sventura.
Il giorno seguente visto che Arturo era deciso di non parlare si cambiò tattica. Prima con le migliori promesse, poi con le minacce, infine con nuove percosse si voleva costringerlo ad iscriversi “volontario” alle Brigate Nere; ma il giovane intrepido seppe te[n]er duro e la sua risposta fu sempre “piuttosto ammazzatemi, ma non sarà mai che io mi iscriva alle Nere Brigate”. Questa volta il martirio di legnate si prolungò per più di un’ora e mezza e benché la povera vittima più volte cadesse a terra svenuta, si avrebbe ancora prolungato se il piede del tavolino usato per bastonare non si fosse spezzato sulla schiena del forte partigiano. Indi per nulla lasciare di intentato e per meglio riuscire allo scopo lo si mette al muro e col fucile puntato gli si intima ancora: “o fatti Brigata nera o ti ammazziamo” ma la risposta del Mattiazzi è sempre la stessa e con le braccia allargate come un crocefisso trova ancora la forza per rispondere “Eccomi pronto, finitemi piuttosto, ma brigata nera non sarò mai”. Ricondotto in prigione ricadde svenuto. Poco tempo dopo arrivò la mamma mandata dal parroco. Arturo giaceva ancora in uno stato da far pietà, incapace di reggersi in piedi venne sollevato dai compagni di prigione, poté essere veduto dalla sua genitrice attraverso una finestra, ma lui non poté scorgerla, il martirio della mattinata gli aveva temporaneamente tolto la forza visiva. Con la voce debole e tremante disse soltanto “Mamma ti saluto, prega per me”. La mamma che tutto aveva intuito balbettò qualche parola d’incoraggiamento e di saluto, ma subito un milite di guardia la costrinse ad uscire dal cortile.
Quando il sole, stanco di regolare la sua luce per illuminare i delitti perpetrati in quella triste giornata, si nascondeva dietro le montagne un sacerdote raggiungeva la prigione, Arturo ed altri compagni si confessavano e la mattina seguente potevano ricevere il pane dei forti, viatico necessario a chi, con forza indomita, e senza rimpianti, si accinge a salire il duro calvario sotto il peso di una croce che ad ogni passo sembra opprimerlo e vuole restare fedele fino all’eroismo, alla vocazione affidatagli dalla Provvidenza.
Il prode Arturo subiva un terzo interrogatorio accompagnato da mezz’ora di percosse, al termine del quale ripassava in prigione dove restava, quasi indisturbato altri otto giorni, al termine dei quali lo si trasferiva in Federazione fascista a Treviso. Qui nuovi interrogatori con nuovi e più raffinati strumenti di tortura per strappare qualche parola compromettente o che potesse offrire il bandolo per dirigere ricerche atte a scovare cooperatori, armi e attività del movimento insurrezionale. Ma Arturo, socio e assiduo frequentatore delle istruzioni morali delle gare di cultura religiosa, che in larga copia venivano impartite in parrocchia, aveva imparato, fra l’altro, che ci sono dei casi nei quali il segreto si può e si deve non rivelarlo, a chi non ha il diritto di carpirlo, specie quando ne venissero gravi danni ai terzi, anche se si fosse minacciati di morte.
Così stretto il braccio con un anello di ferro elettrizzato, cadeva a terra come fulminato. Svegliatosi dopo mezz’ora si accorse di essere di nuovo in prigione e ringraziava Dio di avergli dato la forza di non parlare.
Dopo alcuni giorni lo rivediamo a Postioma in divisa militare. Per sfuggire la morte che più volte aveva visto così da vicino, o la deportazione in Germania aveva tollerato di venire incorporato alla 29° Compagnia Provinciale di Treviso [2]. In questa nuova posizione poteva fornire nuove e preziose informazioni ai compagni di parte e gli erano offerte maggiori mezzi e occasioni per contribuire alla riscossa nei giorni che preludevano alla liberazione della città e marca trevigiana».
(Da Cronistorie di guerra ... 1939-1945, a c. di Erika Lorenzon, pp. 1130-1132. Relazione scritta il 30 settembre 1945)
[1] Riguardo alle sedi della XX Brigata Nera di Treviso, riportiamo quanto scrive Maistrello, 2006, p. 33: «Il Comando della XX Brigata Nera di Treviso aveva sede presso la Federazione provinciale a palazzo Zuccareda, in via Cornarotta. [Attuale Comando provinciale dei Carabinieri].
La truppa, inizialmente, si acquartierò nella caserma 'Cadorin' di Monigo per trasferirsi nel cuore della città presso il Collegio Pio X, quando l'edificio rimase danneggiato da un bombardamento. Lì furono dislocati l'ufficio del vicecomandante, le camerate dei militi e le prigioni destinate alla custodia dei patrioti catturati nei rastrellamenti. Alcune celle furono approntate al piano terra, a sinistra dell'ingresso, mentre altre, opportunamente rinforzate con sostegni in legno in previsione di eventuali bombardamenti, furono ricavate nel sotterraneo.
Un secondo insediamento squadrista si trovava presso la palestra Verdi - nell'area oggi occupata dal nuovo Tribunale - e aveva in dotazione numerosi locali dei quali uno, denominato "battistero", era riservato alle sevizie e alle torture dei partigiani prigionieri.
A Monigo le Brigate Nere mantennero una sede distaccata in una casa di campagna (correntemente definita 'caserma'), il cui fienile veniva usato per bastonare e malmenare i fermati».
Non è noto se questa casa di campagna fosse la “Villa Cappelletto” di cui parla il parroco di Postioma.
Non è noto se questa casa di campagna fosse la “Villa Cappelletto” di cui parla il parroco di Postioma.
[2] Correttamente si trattava del 29° Comando Militare Provinciale di Treviso, cioè una frazione dell’Esercito Nazionale Repubblicano (l'esercito regolare della Repubblica Sociale Italiana). Il 29° CMP dipendeva dal 203° Comando Militare Regionale con sede a Padova e - all'epoca della cronistoria del parroco di Postioma - era comandato dal colonnello Urbano Rocco.
Per i numeri della forza a disposizione del 203° CMR, cfr. Adolfo Scalpelli [1963?], La formazione delle forze armate di Salò attraverso i documenti dello Stato Maggiore della R. S. I., “Situazione comandi reparti e servizi nel territorio del 203° Com. Milit. Region., 1 Agosto 1944-XXII”, pp. 48-50. [Pdf online, dal sito dell'INSMLI. Consultazione: 5 dicembre 2017].
Per i numeri della forza a disposizione del 203° CMR, cfr. Adolfo Scalpelli [1963?], La formazione delle forze armate di Salò attraverso i documenti dello Stato Maggiore della R. S. I., “Situazione comandi reparti e servizi nel territorio del 203° Com. Milit. Region., 1 Agosto 1944-XXII”, pp. 48-50. [Pdf online, dal sito dell'INSMLI. Consultazione: 5 dicembre 2017].